Muore oggi, se ancora qualcuno ci credeva, il mito della “diversità” della Lega Nord di Umberto Bossi. Le inchieste delle procure di Milano, Napoli e Reggio Calabria rivelano una gestione truffaldina dei soldi pubblici che arrivano al partito dai versamenti del 4 per mille e dai cosiddetti rimborsi elettorali (in realtà sono il finanziamento pubblico con nome cambiato per aggirare il risultato di un referendum popolare).
Non ci sono soltanto gli strani “investimenti” in Tanzania, a Cipro, in Norvegia. La gestione dei fondi pubblici arrivati alla Lega è, secondo le ipotesi d’accusa, irregolare già dal 2004. Con soldi impiegati per coprire “i costi della famiglia” – scrivono i magistrati – ovvero “per esigenze personali di familiari del leader della Lega Nord”.
Nel variegato panorama dell’illegalità politica italiana, da oggi non c’è più solo il caso Lusi: c’è anche l’incredibile gestione dei soldi del Carroccio da parte del tesoriere Francesco Belsito. In più, il partito nordista non si è fatto mancare neppure le contiguità mafiose: Belsito è socio in un’immobiliare di un personaggio genovese considerato un uomo della ‘ ndrangheta. Il partito che gridava “Roma ladrona” e si proponeva come l’alternativa pulita al sistema dei partiti “centralisti” in vent’anni è diventato indistinguibile dagli altri.
In verità già nel 1993 incassò, come tutti gli altri, la sua quota della maxi-tangente Enimont. Allora il tesoriere era Alessandro Patelli e Bossi lo liquidò come il “pirla” che incautamente aveva infilato 200 milioni di lire nelle casse del partito. Poi c’è stato l’innamoramento (assai interessato) per il banchiere della Popolare di Lodi Gianpiero Fiorani. E la disfatta della banchetta padana, la Credieuronord, che si è mangiata i risparmi di tanti militanti che credevano in Bossi. Adesso è l’ora di personaggi come Davide Boni che, per costruire quello che i magistrati considerano un sistema illegale di finanziamenti, si è affidato a un vecchio esperto del ramo, un faccendiere socialista reduce della Prima Repubblica. E come Belsito: Bossi non gli ha dato del “pirla”, ma lo ha fino a ieri strenuamente difeso, legando così pericolosamente la sua sorte a quella del suo tesoriere.
A questo punto, a salvare l’anima al Carroccio non potrà essere neppure la fronda interna, tardiva e inefficace, di Roberto Maroni contro il “cerchio magico” del vecchio capo che un tempo gridava “Roma ladrona”. (Gianni Barbacetto - IL FATTO QUOTIDIANO -)
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