martedì 29 dicembre 2009

Spendono 100 e incassano 500, forti di una legge basata sul principio "un potenziale elettore-un euro", e che prevede pochi e vaghi obblighi in tema di bilanci. L’ideale, per gonfiare le spese. Risultato: i partiti politici italiani, per la campagna elettorale per le politiche del 2008, incasseranno dallo Stato rimborsi per 503 milioni, a fronte di spese dichiarate per 110 milioni.

Numeri che spiccano dalla relazione della Corte dei Conti sui consuntivi per le spese elettorali dei partiti. Ben coperti, stando alle cifre. Per le politiche 2008, il Pdl riceverà 206 milioni, a fronte di spese per 53 milioni, mentre al Pd spettano 180 milioni, per spese pari a 18 milioni. Non si può lamentare neppure la Lega Nord, che prenderà 41 milioni dopo averne spesi 2,9. Unico a rimetterci, il Partito Socialista, che prenderà "solo" 2,4 milioni a fronte di costi per 3,3 milioni. Costi gonfiati, secondo i magistrati contabili, che da tempo chiedono di calcolare i rimborsi in base "alla spese sostenuta e contabilmente giustificati". Uno spauracchio per le forze politiche, unite (o quasi) nel “ritoccare” i rendiconti finanziari anche per il timore di nuove norme.

Nell’attesa, il Pdl ha dichiarato spese per viaggi e telefonia per oltre 15 milioni, ma quelle effettivamente accertate superano di poco i 650.000 euro. Differenza significativa anche per l’Idv: i costi dichiarati sono per un milione, quelli provati sono attorno ai 16.000 euro. Colpisce il dato del Partito socialista, che per lo stesso tipo di voci ha dichiarato spese per un milione. Ma la Corte non ne ha accertata nessuna. Paradossi permessi dalle norme sul finanziamento ai partiti, sempre più favorevoli con il passare degli anni. In base alla legge 156 del 2002, per accedere ai rimborsi, erogati in rate annuali, basta ottenere l’1% dei voti espressi alle Politiche (alle Europee serve il 4%).

Nel 2006, la legge 5122 ha stabilito che i fondi sono dovuti per tutti e cinque gli anni della legislatura, indipendentemente dalla sua durata effettiva. In caso di crisi e cambiamento di governo, insomma, i soldi arriveranno comunque. "Il punto fondamentale è la corrispondenza tra numero di elettori e fondi" spiega Cesare Salvi, presidente e fondatore di Socialismo 2000. Sul tema l’ex senatore ha anche scritto un libro con il compagno di partito Massimo Villone (Il costo della democrazia). Da esperto, precisa: "Le norme sul finanziamento del 2002 prevedono che i rimborsi vengano calcolati non sulla base dei voti presi, ma dei potenziali elettori. Se un cittadino non va alle urne, il rimborso corrispondente al suo voto verrà spartito tra i partiti che hanno raggiunto il quorum dell’1%, se parliamo di elezioni politiche. Lo stesso vale per i voti dati a quelle forze che non hanno ottenuto il quorum: i soldi corrispondenti andranno ai partiti che hanno superato lo sbarramento".

Non basta. C’è il nodo della trasparenza sui bilanci, quanto mai difficile da pretendere. "Le norme al riguardo - spiega Salvi - sono quanto mai vaghe. I partiti sono obbligati a presentare i bilanci alla presidenza della Senato, per ciò che riguarda le elezioni per Palazzo Madama, e alla presidenza della Camera per le altre consultazioni. Ma la legge non chiarisce bene se e come le presidenze debbano verificare i rendiconti, e anche la parte sulle eventuali sanzioni è alquanto fumosa. Ci aggiunga anche il problema politico della scarsa volontà di controllo. E capirà il quadro". Molto diverso da quello del 1993, quando il finanziamento ai partiti venne abrogato con un referendum approvato con il 90,3% dei voti. (IL FATTO QUOTIDIANO)

Nessun commento: