Tranquilli, ci penso io. E passa la paura. D’altronde si sa, in tempi di burrasca, quando il mare non è piatto come lo si vorrebbe, la sindrome del timoniere rispunta qua e là. Perché quando spunta qualche nodo un po’ troppo delicato (o un po’ troppo intricato) da sciogliere con i “soliti” metodi, c’è sempre qualcuno pronto con l’accetta in mano. Insomma, è la tentazione del “ghe pensi mi”. È una strada rodata e sicura, allettante per chi si intende di gestioni aziendali, di sfide imprenditoriali. L’uomo al comando serve spesso e volentieri, lì. Ma è anche un modo di fare politica, che a molti piace, che in momenti particolari riscuote un buon successo, tanto che nella storia è stato spesso premiato (non di rado con esiti infausti, peraltro). C’è poco da fare: il decisionismo in politica esiste e torna – anche in ordinamenti come il nostro, che per motivi precisi non lo favoriscono – costantemente alla ribalta.
L’abbiamo visto ieri, in effetti. Con un premier – il nostro – che stanco di troppa “ebollizione” promette di prendere in mano le redini della situazione per “risolvere tutto”. E di farlo con qualche coup de théatre, magari. Con un bel colpo di scena che mandi a casa (o a quel paese, per contentare i più guerrafondai) quel paese di grilli parlanti, disturbatori, traditori e comunisti. Una scelta mediatica, prima che politica. Anche perché la politica “sana” è per sua natura “arte della polis”, e dunque mediazione, armonizzazione di sensibilità, storie e progetti differenti. Un discorso che dovrebbe valere nei confronti di un’intera comunità nazionale, figuriamoci dentro a una maggioranza. E anche perché – lo ha ricordato oggi Alessandro Campi in un’intervista – compito di uno statista è affrontare i problemi del paese e del governo. Senza negarli, senza nasconderli dietro il paravento sempre comodo delle “questioni personali” o delle semplici “lotte di potere”, senza derubricarli, magari con sorriso beffardo, a quisquilie, a piccoli momenti di “ebollizione”. Insomma, il decisionismo – che è tutt’altro che negativo, quando è inserito in un sistema di regole che lo favorisce e lo “metabolizza” con pesi e contrappesi adeguati – presuppone per l’appunto decisioni. E decisioni che siano “soluzioni” di problemi ancora aperti. Ma tant’è. Ghe pensi mi, allora. Eppure sarebbe tanto bello poter dire che ci piacerebbe “pensarci noi”. Tutti noi. Dato che la gestione di un paese è cosa che prevede la partecipazione dei passeggeri, e non solo qualche ardita manovra da parte del capitano. (FEDERICO BRUSADELLI - FAREFUTURO -)
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