venerdì 14 agosto 2009

Tra i numeri d’avanspettacolo di un’estate politica più da pochade del solito, uno dei più esilaranti, non ci piove, è stata la crociata a difesa della magistratura di Raffaele Fitto, principe ereditario del regno di Puglia, momentaneamente spodestato da Nichi l’usurpatore e in dorato esilio come ministro degli Affari regionali, ma ansioso, ansiosissimo di riprendersi quel che gli appartiene per diritto di sangue. Dopo la lettera aperta di Vendola alla pm Desirée Digeronimo, il rampollo s’è imbizzarrito: “Ohibò! Qui si tenta di intimidire la magistratura”. Qualche tempo fa, le vittime di tanta violenza commuovevano assai meno il cuore del ministro. Li definiva spensierato “un manipolo di legionari”, una “casta togata” presente, ahilui, persino nelle solenni aule del Senato. Tanto per non intimidire nessuno, il difensore di donna Desirée aveva anche provveduto a denunciare i futuri pupilli al Csm (denuncia prontamente archiviata). Il collega Angelino Alfano, ministro della Giustizia, era stato anche più solerte, inviando direttamente a Bari i suoi ispettori, proprio mentre il ministro per gli Affari regionali veniva rinviato a giudizio.Tanto per non intimidire nessuno. Fitto junior è un ragazzo sveglio, e soprattutto precoce. E’ stato tra i più giovani consiglieri regionali nella storia patria, poi il più giovane presidente di Regione di tutti i tempi. Ovvio che un tipo simile abbia imparato al volo la più basilare fra le tante lezioni di re Silvio, modificare il giudizio a seconda delle circostanze e della convenienza, e adoperare le corazzate mediatiche per capovolgere la realtà ogni volta che questa rischi di fare troppo danno. Capita così che si erga a severo censore e austero moralizzatore uno che negli scandali, specialmente in quelli legati alla sanità, è impelagato fino al collo. Uno che non si ritrova agli arresti domiciliari (con l’imputazione di corruzione, falso e illecito finanziamento ai partiti) solo perché la camera ha negato l’autorizzazione all’arresto (con un voto solo a favore, il suo: tanto per regalarsi un beau geste a prezzo stracciato). Che è rinviato a giudizio per turbativa d’asta e interesse privato del curatore fallimentare. Che potrebbe presto doversela vedere con problemi anche più imbarazzanti.La Finanza, infatti, starebbe indagando, anzi avrebbe già concluso le prime indagini, sull’increscioso caso della clinica convenzionata Città di Lecce. Inappuntabile sul piano medico, la suddetta istituzione lo sarebbe un po’ meno su quello amministrativo. Pare infatti che in nessuna delle carte che vengono doverosamente fatte firmare ai pazienti figuri l’intervento richiesto, per il quale la clinica chiederà poi il rimborso alla regione. Dicono i pazienti stessi che proprio quella voce resti frequentemente in bianco, e va da sé che non si tratta di un particolare: senza la specifica in questione, infatti, nulla impedisce di chiedere rimborsi ben più cospicui di quelli commisurati all’intervento effettivamente compiuto. Se al pacchetto si aggiunge il fatto che proprio una parte della famiglia Fitto sarebbe direttamente coinvolta negli interessi economici della clinica si capisce perché l’inchiesta potrebbe rivelarsi nelle prossime settimane l’ennesima bomba. Non sarebbe il primo incidente del genere per il principe ereditario. La faccenda che, senza lo scudo del Parlamento, gli sarebbe costata gli arresti domiciliari riguardava appunto l’appalto di 11 cliniche a Giampaolo Angelucci, che secondo gli inquirenti proprio in cambio del regalino avrebbe versato, perla campagna elettorale del 2005, 500mila euro alla lista di Fitto: prezzi scontati, se è vero che si trattava di un affaruccio da 198 milioni di euro. Il rinvio a giudizio, invece, riguarda la vendita della società Cedis, una catena di 23 supermercati e punti vendita, fallita nel 2005. Valeva 15,5 milioni di euro. C’era chi ne offriva 19,2 (le società Disal e Megamark). Fu venduta, anzi svenduta alla Società sviluppo alimentare che fa capo all’amico Brizio Montinari per soli 7 milioni. Un bel risparmio, a dimostrazione che l’amicizia, sentimento tra i più nobili, a volte può rivelarsi anche tra i più redditizi. Ma non è che questa messe copiosa di scandali e inchieste, di rinvii a giudizio e richieste d’arresto, di tangenti e favori scambiati, legittimi l’infamante accusa di corruzione e autorizza a parlare di malgoverno. Più semplicemente, Fitto il giovane somiglia a un vicerè abituato a considerare il regno, pardon la Regione cosa sua. E a comportarsi di conseguenza. Quando il padre Salvatore, presidente in carica della regione, perì in un incidente d’auto, nel 1988, l’erede, diciannovenne, era già in politica: si faceva le ossa per incassare al più presto la legittima eredità politica. Due anni dopo era consigliere regionale per la Dc. Gavetta rapida, nel ‘95, migrato nel frattempo in Forza Italia, era già promosso vicepresidente della Regione nella giunta Santostaso, un notabile ancien régime che l’impetuoso Raffaele sopportava pochissimo e che, pertanto, si adoperò per far fuori il prima possibile. Senza neanche pazientare fino alla fine del mandato. Un giro al parlamento europeo, tanto per tenersi in forma, e nel 2000 torna a casa: il più imberbe tra i presidenti di Regione. Forzista sì, ma senza dimenticare i quarti di nobiltà democristiana. Gli appalti per le mense nei soliti ospedali pugliesi furono prontamente affidate ai compagni di parrocchia della celeberrima “La cascina” targata Comunione e Liberazione. Quei gentiluomini che, nelle intercettazioni, lodavano le pietanze che ammannivano ai pazienti con frasi colorite tipo: “Quella roba non se la mangerebbero neppure i leoni”. La sconfitta nel 2005 a opera di un outsider come Nichi Vendola, Raffaele Fitto non la ha vissuta come uno scacco politico, ma come un affronto personale. Persino il ministero, solitamente la meta più ambita per i politici, pare viverlo come un desolato premio di consolazione. Il viceré rivuole la Puglia, poco importa se per interposto reggente, e per farcela è pronto a tutto. Persino a farsi paladino di quei magistrati che, se potesse, spedirebbe in esilio senza processo. Colpevoli del delitto di lesa maestà. (L'ALTRO)

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