Come ogni assoluzione eccellente, anche quella di Calogero Mannino, arrestato 15 anni fa per concorso esterno in associazione mafiosa, ha scatenato la solita grandinata di luoghi comuni, falsità e scemenze assortite. Non si sa se dovute a ignoranza o a malafede (o forse a entrambe, visto che vengono dagli stessi che accettano solo le sentenze di assoluzione, infatti stanno beatificando il pregiudicato Craxi).
1) "Mannino non andava nemmeno processato: è stata una persecuzione politica della Procura di Caselli". In realtà la procura s’è sempre limitata a chiedere. Mannino fu arrestato da un gip e i ricorsi dei difensori furono respinti dal Riesame (3 giudici) e dalla Cassazione a sezioni unite (9 giudici); poi – consulenze medico-legali alla mano – il Tribunale di Palermo (3 giudici) respinse la richiesta di scarcerazione per motivi di salute. Furono proprio i pm a farlo liberare anzitempo. Poi fu assolto con formula dubitativa in tribunale, condannato a 5 anni e 4 mesi in appello, sentenza annullata dalla Cassazione che però ritenne giusto riprocessarlo in appello, dove fu assolto sempre con formula dubitativa, sentenza confermata definitivamente l’altro giorno. Quindi una dozzina di giudici hanno stabilito che era giusto processarlo.
2) "E’ stato un errore giudiziario e ora bisogna riformare la giustizia tagliando le mani ai pm e votando il ‘processo breve’, visto che la durata del processo è colpa dei pm". Il processo è durato così a lungo perché l’Italia è l’unico paese al mondo con tre gradi di giudizio automatici che spesso, come in questo caso, diventano cinque. Ma anche perché la giustizia è senza uomini né mezzi. E, in questo caso, anche a causa della legge Pecorella, che abolì l’appello del pm paralizzando il processo finché la Consulta non la cancellò.
In ogni caso non tutte le assoluzioni significano che l’imputato è stato processato per errore. Per capire se lo è stato, bisogna leggere le motivazioni. Qui anche i giudici che hanno assolto Mannino hanno ritenuto provati molti dei fatti contestati dall’accusa: un pranzo con un gruppo di ufficiali medici e con due boss; la partecipazione alle nozze fra Maria Silvana Parisi e Gerlando Caruana, figlio di Leonardo, boss di Siculiana; i rapporti con gli esattori mafiosi Nino e Ignazio Salvo, ai quali Mannino – da assessore regionale alle Finanze – concesse in gestione l’esattoria di Siracusa; gli incontri in casa sua con il boss Antonio Vella e con Gioacchino Pennino, medico palermitano di Brancaccio, esponente della Dc cianciminiana, discendente di una famiglia mafiosa, amico dei boss Giuseppe Di Maggio, Totò Greco e i fratelli Graviano, per chiedere e ottenere voti.
"È acquisita la prova – scrive il tribunale che lo assolse – che nel 1980-81 Mannino aveva stipulato un accordo elettorale con un esponente della famiglia agrigentina di Cosa Nostra, Antonio Vella", e poi con altri boss.
Il "patto elettorale ferreo, avallato dall’intervento di un mafioso come Vella…costituisce una chiave interpretativa della sua personalità e consente di invalidare buona parte del capitolato difensivo, volto a rappresentare Mannino come un politico immune da contaminazioni coscienti con ambienti mafiosi o addirittura vittima di chissà quali complotti".
La questione controversa, valutata diversamente nei vari gradi di giudizio, non sono i rapporti e gli accordi coi mafiosi: è la “controprestazione” fornita da Mannino a Cosa Nostra, il do ut des necessario per innescare il concorso esterno. Per i giudici del primo appello, i favori alla mafia sono provati; per il secondo appello e la seconda Cassazione, non abbastanza. Certo, è seccante restare sotto processo per tanti anni. Ma c’è un sistema infallibile per non essere accusati di mafia: non incontrare mafiosi, non andare a cena con loro né ai loro matrimoni e soprattutto non stipulare con loro “patti elettorali ferrei”. E’ dura, ma ce la si può fare. (MARCO TRAVAGLIO - IL FATTO QUOTIDIANO -)
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