Sono infatti i sovrani a fine corsa che devono sistemare le pendenze di una vita, elargire le più generose liberalità ai propri famigli, e saldare i conti con chi ha fatto qualcosa di straordinario o di inconfessabile per la causa dell'imperatore.
Questo spiega il carattere del tutto impolitico della nomina di Brancher. Talmente impolitico da aver messo nei guai perfino chi avrebbe potuto digerirla più facilmente, e cioè Bossi, ora invece assediato dal suo popolo che protesta indignato. E talmente sfacciato da obbligare il Capo dello Stato a una nota di precisazione del tutto inusuale, e per questo tanto più severa.
Brancher infatti, come tutti noi, non sa neanche di che cosa sia ministro. Il nome del suo dicastero cambia ogni giorno e, quanto al contenuto, è lui stesso a dire: «Sto approfondendo, lasciatemi capire che cosa devo fare». Il suo ministero è infatti ad personam, non solo senza portafoglio ma senza senso e senza deleghe. Per questo, quando ha chiesto al tribunale che lo sta processando di assentarsi a causa del «legittimo impedimento» rappresentato dal lavoro di ministro, il Capo dello Stato ha semplicemente ricordato che di lavoro non ne ha, e che non c'è un «ministero da organizzare», perché quel ministro è senza ministero.
Dicevamo prima che questo atto di arroganza sa di impotenza più che di onnipotenza. Lo dimostrano proprio le reazioni politiche che sta provocando. Quando il potere esagera, corre infatti il rischio di dimostrare la sua fragilità e di essere costretto al passo indietro. Non è escluso che questa sia la fine che farà il caso Brancher. Non perché si dimetterà. Intendiamoci: da Bossi a Fini ai suoi colleghi di governo (senza eccezione alcuna) tutti lo vorrebbero fuori. Ma l'immediata richiesta di dimissioni da parte delle opposizioni rende ormai politicamente impossibili le dimissioni, perché non c'era modo migliore di ricompattare il centrodestra.
Meglio, molto meglio, sarebbe applicare a Brancher la legge del contrappasso. Lasciarlo lì, nel suo nuovo ministero a girarsi i pollici. Ma impedire che la sua nomina possa intralciare il corso della giustizia, soprattutto quando lui è l'imputato. Ed evitare così anche l'ingiustizia familiare di un processo che continua nei confronti della moglie e si ferma nei confronti del marito: una grave violazione del principio delle pari opportunità.
Vedere un ministro partecipare al suo processo sarebbe anche un ottimo modo per reinterpretare la legge sul legittimo impedimento, che non può equivalere a un'immunità automatica per i ministri (quella verrà con il lodo Alfano costituzionalizzato, e, ahimè, riguarderà anche Brancher, il che spiega la magnificenza del regalo che gli ha fatto il suo ex datore di lavoro e ora premier). Perché sia legittimo, bisogna infatti dimostrare l'impedimento. E a negarne l'esistenza, da ieri, c'è un testimone di eccezione: il presidente della Repubblica. Ai giudici l'ardua sentenza. (ANTONIO POLITO - IL RIFORMISTA -)
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