Davanti a Palazzo Madama, ieri mattina, a protestare contro la legge bavaglio sulle intercettazioni sul punto di essere definitivamente approvata dal Senato, eravamo una cinquantina e non di più. Eravamo, perché mi ero recato anche io sul posto convinto che la mobilitazione sarebbe stata, come si dice, massiccia e combattiva. Non era forse in gioco la nostra libertà di raccontare i fatti senza dover rischiare la galera e pene pecuniarie pesantissime? Tuttavia, poiché massicce erano le accaldate carovane di turisti a zonzo per piazza Navona e di combattivo c’erano solo le dichiarazioni rese alle tv da alcuni dirigenti sindacali e dell’opposizione, sono stato colto da un dubbio fastidioso. Non sarà per caso che la maggioranza dei giornali e dei giornalisti italiani considera queste norme un male tutto sommato accettabile?
Quanti (ho pensato) avranno pensato: vale davvero la pena beccarsi da sei mesi a quattro anni e sborsare decine di migliaia di euro per lo sfizio di pubblicare un verbale o un’intercettazione? Sì, certo, sono documenti che dimostrano le nefandezze degli sciacalli che esultano sui terremoti e dei rapaci delle cliniche che distruggono corpi umani in serie per accrescere il fatturato. Vorrà dire che per pubblicarle si aspetteranno i processi. Occorreranno degli anni? Meglio: si fornirà dei fatti un’analisi più meditata.
E i lettori? Si abitueranno. Ha senso per uno scoop mettersi in cattiva luce presso i propri editori, fare rischiare loro l’osso del collo in un periodo così difficile per l’editoria? Senza contare che potresti sempre inciampare in uno Schifani che ti chiede 720 mila euro sull’unghia solo perché ti occupi dei suoi trascorsi palermitani. Viste così le cose, l’assenza davanti al Senato di tanti bravi colleghi e di tanti illustri direttori mi è apparsa come una scelta di necessaria prudenza in tempi così calamitosi. La libertà di stampa è una bella cosa. Ma se confortevole, è ancora più bella. Solo cattivi pensieri ? (ANTONIO PADELLARO - IL FATTO QUOTIDIANO -)
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